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Mollo il lavoro (in banca): storie di downshifting – I parte
Mollo il lavoro (in banca): storie di downshifting – I parte
Un paio di mesi fa, grazie alla mia “attività” di autoproduttrice di saponi e cosmetici ho conosciuto Cinzia. Cinzia è una donna, una mamma, una creativa che esprime la propria creatività attraverso il lavoro a maglia e la tintura naturale delle fibre. Fin qui non ci sarebbe stato …
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Mollo il lavoro (in banca): storie di downshifting – I parte
Un paio di mesi fa, grazie alla mia “attività” di autoproduttrice di saponi e cosmetici ho conosciuto Cinzia. Cinzia è una donna, una mamma, una creativa che esprime la propria creatività attraverso il lavoro a maglia e la tintura naturale delle fibre. Fin qui non ci sarebbe stato niente di strano, se non fosse che fino a qualche mese fa l’elenco che la descriveva a se stessa e al mondo, era: Cinzia lavora in banca, è una donna, una mamma, una creativa.
Cinzia non lavora più in banca e non (solo) per i tagli al personale, la crisi e le cavallette: semplicemente, ha scelto di non lavorare più in banca. L’ha scelto proprio ora, in piena recessione, con due figli, una casa, una famiglia. Viene da chiedersi perché, cosa l’abbia spinta ad abbandonare il lavoro e mille altre domande; io, queste domande gliele ho fatte sul serio e lei ha gentilmente risposto.
Nell’intervista che segue, non troverete link di nessun tipo perché Cinzia non ha un blog; tutto questo succede davvero, nella realtà vera, lontano da Internet e a pochi chilometri da casa mia.
Questa è la prima parte dell’intervista che mi ha concesso e che pubblico perché credo possa essere interessante sapere che chi fa downshifting non lo fa solo per sbandierarlo in rete perché va di moda. Ci sono persone vere là fuori che rinunciano al lavoro, o che decidono di lavorare meno, di lavorare diversamente, o che semplicemente si adattano alla perdita del lavoro e la vivono (addirittura) come un’opportunità, nonostante la crisi. Buona lettura.
Quando hai lasciato il lavoro? Che lavoro facevi? Da quanto tempo?
Ho lasciato a fine marzo la Banca per cui lavoravo da 11 anni (precedentemente, altri 6 anni in un’altra banca), dove ho sempre appartenuto al customer care per investitori istituzionali su mercati esteri (= aiutavo altre banche o società di investimento a chiudere correttamente le compravendite di titoli su mercati globali, e in seguito davo assistenza sulla gestione titoli -incasso cedole e dividendi, tassazioni locali vs italiana, eventi di capitale, blocchi/sblocchi. Ho assistito in diretta al crollo di Argentina e recentemente la Grecia, con corse frenetiche a salvare il salvabile dei nostri clienti).
Che titolo di studio hai? Il tuo lavoro era quello per cui avevi studiato?
Sono diplomata PACLE, infinitamente fuori corso alla facoltà di Lingue moderne all’Università di Pavia.
La risposta a “è il lavoro per cui avevi studiato?” è sì e no. Sì, perché Perito Aziendale ti dà una preparazione di ragioneria, segretariato, lingue per il comparto estero (gergo che non ti insegna nessun altra scuola); no, perché il mio sogno non era lavorare in banca (=allo sportello) e perché mai avrei pensato che banca significasse anche quel tipo di lavoro. O che potesse esistere un lavoro simile, a dirla tutta. Ho partecipato al concorso pubblico di assunzione della banca precedente (quella dei 6 anni) e quando ho cominciato mi hanno messo nel settore internazionale, non nelle filiali che conosciamo noi: è stata una casualità fortunata che mi ha fatto conoscere un ambiente diverso e stimolante, sempre aperto (si hanno contatti quotidiani con tutto il mondo). Quel tipo di lavoro e di ambiente mi piaceva, mi ha dato anche soddisfazioni (qualche avanzamento di carriera, riconoscimenti monetari e non); qualcosa però si è rotto al rientro dalla seconda maternità.
Qual era la tua routine?
Al mattino, sveglia alle 6:30, preparazione di figli e famiglia per la giornata, alle 8 tutti fuori, 1:15/1:45 (a seconda della volontà o meno di Trenitalia di cumulare ritardi sulla tratta Lodi-Milano), macchina-treno-2 metropolitane-ufficio dalle 9:30 alle 17:00 (più eventuali recuperi di ritardi dovuti ai treni o scioperi ATM), 30 minuti di pausa pranzo (sarebbe un’ora, ma avevo chiesto di ridurla per poter entrare più tardi e non uscire eccessivamente tardi la sera); 2 metropolitane-treno (ritardi)-macchina, recupero figli alle 19 che nel frattempo avevano cenato dai nonni (santi). Cena io e marito, bimbi a letto (hanno 7 e 4 anni), era ora di andare a dormire e ricominciare il giorno dopo. Durante la giornate, il lavoro prevedeva la risoluzione, il più velocemente possibile (a volte con reale urgenza viste le cifre coinvolte) di problemi, fornitura tempestiva di informazioni, ascolto di lamentele (a volte, raramente per fortuna, con toni anche pesanti).
Perché hai deciso di mollare?
Con l’andare del tempo (e in modo esponenziale dopo la crisi-scandalo dei mutui subprime) ho notato in azienda sempre maggiore orientamento al risultato immediato (comprensibile se si pensa al fatto di dover rendere immediatamente conto agli azionisti di ogni centesimo speso o non guadagnato, ancora di più tenendo conto che uno degli azionisti è lo stato americano). Le strategie a lungo termine non soddisfacevano più il mio modo di vedere il lavoro. Sono iniziate le riduzioni di personale, si è instaurata paura nei dipendenti, gli annunci di uscite, volontarie e decise dall’azienda, erano frequenti; da lì a entrare tutti in competizione gli uni contro gli altri è stato un attimo. Dove si erano creati rapporti che andavano al di là del lavoro (non necessariamente amicizie esterne, anche se per fortuna ho trovato anche quelle), si è mantenuta armonia e fiducia reciproche, dove questo non era accaduto, ci si è trovati allo sbaraglio e a “farsi guerra” uno con l’ altro per avere un po’ di luce che permettesse di mantenere lo stipendio. Era comunque un ambiente civile, migliore di molti altri di cui sento parlare, anche e per prima cosa dal punto di vista economico.
Ma io ho imparato a lavorare badando alla qualità, per far sì di conquistare la quantità, alla correttezza tra pari e non, con obbiettivi. E questo mi è parso che venisse a mancare. Oltre a questo, della mie ore di veglia, ben poche restavano per la famiglia, la mia vita, le mie passioni (relegate a un po’ di tricot e di uncinetto nei tragitti in treno se riuscivo a trovar posto a sedere). Mi sentivo in colpa verso tutti: la famiglia che mi sembrava di trascurare infinitamente, il lavoro, su cui ormai non ero più concentrata al 100%, me, che venivo sempre all’ultimo posto (o almeno così mi pareva).
Alla fine dello scorso anno è stata annunciata una nuova riduzione di personale, con la possibilità di compensazioni per chi avesse voluto lasciare volontariamente la banca. E io ho lasciato volontariamente.
La prima parte dell’intervista finisce qui, ma fra qualche giorno pubblicherò la seconda parte. Le ho chiesto com’è cambiata la sua routine, come si sente ora, se si è pentita o meno. Curiosi di conoscere le risposte?
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Mollo il lavoro (in banca): storie di downshifting – I parte
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Un paio di mesi fa, grazie alla mia “attività” di autoproduttrice di saponi e cosmetici ho conosciuto Cinzia. Cinzia è una donna, una mamma, una creativa che esprime la propria creatività attraverso il lavoro a maglia e la tintura naturale delle fibre. Fin qui non ci sarebbe stato …
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Mollo il lavoro (in banca): storie di downshifting – I parte
Un paio di mesi fa, grazie alla mia “attività” di autoproduttrice di saponi e cosmetici ho conosciuto Cinzia. Cinzia è una donna, una mamma, una creativa che esprime la propria creatività attraverso il lavoro a maglia e la tintura naturale delle fibre. Fin qui non ci sarebbe stato niente di strano, se non fosse che fino a qualche mese fa l’elenco che la descriveva a se stessa e al mondo, era: Cinzia lavora in banca, è una donna, una mamma, una creativa.
Cinzia non lavora più in banca e non (solo) per i tagli al personale, la crisi e le cavallette: semplicemente, ha scelto di non lavorare più in banca. L’ha scelto proprio ora, in piena recessione, con due figli, una casa, una famiglia. Viene da chiedersi perché, cosa l’abbia spinta ad abbandonare il lavoro e mille altre domande; io, queste domande gliele ho fatte sul serio e lei ha gentilmente risposto.
Nell’intervista che segue, non troverete link di nessun tipo perché Cinzia non ha un blog; tutto questo succede davvero, nella realtà vera, lontano da Internet e a pochi chilometri da casa mia.
Questa è la prima parte dell’intervista che mi ha concesso e che pubblico perché credo possa essere interessante sapere che chi fa downshifting non lo fa solo per sbandierarlo in rete perché va di moda. Ci sono persone vere là fuori che rinunciano al lavoro, o che decidono di lavorare meno, di lavorare diversamente, o che semplicemente si adattano alla perdita del lavoro e la vivono (addirittura) come un’opportunità, nonostante la crisi. Buona lettura.
Quando hai lasciato il lavoro? Che lavoro facevi? Da quanto tempo?
Ho lasciato a fine marzo la Banca per cui lavoravo da 11 anni (precedentemente, altri 6 anni in un’altra banca), dove ho sempre appartenuto al customer care per investitori istituzionali su mercati esteri (= aiutavo altre banche o società di investimento a chiudere correttamente le compravendite di titoli su mercati globali, e in seguito davo assistenza sulla gestione titoli -incasso cedole e dividendi, tassazioni locali vs italiana, eventi di capitale, blocchi/sblocchi. Ho assistito in diretta al crollo di Argentina e recentemente la Grecia, con corse frenetiche a salvare il salvabile dei nostri clienti).
Che titolo di studio hai? Il tuo lavoro era quello per cui avevi studiato?
Sono diplomata PACLE, infinitamente fuori corso alla facoltà di Lingue moderne all’Università di Pavia.
La risposta a “è il lavoro per cui avevi studiato?” è sì e no. Sì, perché Perito Aziendale ti dà una preparazione di ragioneria, segretariato, lingue per il comparto estero (gergo che non ti insegna nessun altra scuola); no, perché il mio sogno non era lavorare in banca (=allo sportello) e perché mai avrei pensato che banca significasse anche quel tipo di lavoro. O che potesse esistere un lavoro simile, a dirla tutta. Ho partecipato al concorso pubblico di assunzione della banca precedente (quella dei 6 anni) e quando ho cominciato mi hanno messo nel settore internazionale, non nelle filiali che conosciamo noi: è stata una casualità fortunata che mi ha fatto conoscere un ambiente diverso e stimolante, sempre aperto (si hanno contatti quotidiani con tutto il mondo). Quel tipo di lavoro e di ambiente mi piaceva, mi ha dato anche soddisfazioni (qualche avanzamento di carriera, riconoscimenti monetari e non); qualcosa però si è rotto al rientro dalla seconda maternità.
Qual era la tua routine?
Al mattino, sveglia alle 6:30, preparazione di figli e famiglia per la giornata, alle 8 tutti fuori, 1:15/1:45 (a seconda della volontà o meno di Trenitalia di cumulare ritardi sulla tratta Lodi-Milano), macchina-treno-2 metropolitane-ufficio dalle 9:30 alle 17:00 (più eventuali recuperi di ritardi dovuti ai treni o scioperi ATM), 30 minuti di pausa pranzo (sarebbe un’ora, ma avevo chiesto di ridurla per poter entrare più tardi e non uscire eccessivamente tardi la sera); 2 metropolitane-treno (ritardi)-macchina, recupero figli alle 19 che nel frattempo avevano cenato dai nonni (santi). Cena io e marito, bimbi a letto (hanno 7 e 4 anni), era ora di andare a dormire e ricominciare il giorno dopo. Durante la giornate, il lavoro prevedeva la risoluzione, il più velocemente possibile (a volte con reale urgenza viste le cifre coinvolte) di problemi, fornitura tempestiva di informazioni, ascolto di lamentele (a volte, raramente per fortuna, con toni anche pesanti).
Perché hai deciso di mollare?
Con l’andare del tempo (e in modo esponenziale dopo la crisi-scandalo dei mutui subprime) ho notato in azienda sempre maggiore orientamento al risultato immediato (comprensibile se si pensa al fatto di dover rendere immediatamente conto agli azionisti di ogni centesimo speso o non guadagnato, ancora di più tenendo conto che uno degli azionisti è lo stato americano). Le strategie a lungo termine non soddisfacevano più il mio modo di vedere il lavoro. Sono iniziate le riduzioni di personale, si è instaurata paura nei dipendenti, gli annunci di uscite, volontarie e decise dall’azienda, erano frequenti; da lì a entrare tutti in competizione gli uni contro gli altri è stato un attimo. Dove si erano creati rapporti che andavano al di là del lavoro (non necessariamente amicizie esterne, anche se per fortuna ho trovato anche quelle), si è mantenuta armonia e fiducia reciproche, dove questo non era accaduto, ci si è trovati allo sbaraglio e a “farsi guerra” uno con l’ altro per avere un po’ di luce che permettesse di mantenere lo stipendio. Era comunque un ambiente civile, migliore di molti altri di cui sento parlare, anche e per prima cosa dal punto di vista economico.
Ma io ho imparato a lavorare badando alla qualità, per far sì di conquistare la quantità, alla correttezza tra pari e non, con obbiettivi. E questo mi è parso che venisse a mancare. Oltre a questo, della mie ore di veglia, ben poche restavano per la famiglia, la mia vita, le mie passioni (relegate a un po’ di tricot e di uncinetto nei tragitti in treno se riuscivo a trovar posto a sedere). Mi sentivo in colpa verso tutti: la famiglia che mi sembrava di trascurare infinitamente, il lavoro, su cui ormai non ero più concentrata al 100%, me, che venivo sempre all’ultimo posto (o almeno così mi pareva).
Alla fine dello scorso anno è stata annunciata una nuova riduzione di personale, con la possibilità di compensazioni per chi avesse voluto lasciare volontariamente la banca. E io ho lasciato volontariamente.
La prima parte dell’intervista finisce qui, ma fra qualche giorno pubblicherò la seconda parte. Le ho chiesto com’è cambiata la sua routine, come si sente ora, se si è pentita o meno. Curiosi di conoscere le risposte?
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